Marotta, Valerio 18-04-2018 - Inclusione o Esclusione? La constitutio Antoniniana e i limiti del cosmopolitismo universale romano 19-08-2022 - Una breve nota su Ius Originis, cittadinanza e filiazione 04-08-2023 - Una nota su verità e natura nel pensiero giuridico romano
Lo ammetto: è un titolo sconcertante. Se un prete proclamasse, dal pulpito, che Dio non esiste, ci stupiremmo soltanto un po’ di più. Eppure, per rovesciarne il senso, basterebbe intendere le parole «il diritto romano non serve a nulla» non come una sprezzante liquidazione d’una disciplina millenaria, ma come l’orgogliosa rivendicazione dei suoi meriti culturali contro l’intelligenza del mero computo dell’utile che è, in fondo, l’intelligenza della mediocrità[2].
Nell’Università, come ripetevano alle giovani matricole degli anni 70 del secolo scorso i nostri Maestri, si insegnano – o dovrebbero insegnarsi – esclusivamente discipline caratterizzate da un proprio peculiare statuto culturale. Per questo, valutando la specifica realtà degli studi di Giurisprudenza, ho sempre giudicato irriguardoso (in primo luogo per i cultori del diritto privato, del penale o del processuale) distinguere, a tal riguardo, tra materie storico-filosofiche e materie tecnico-positive. Ma anche le istituzioni muoiono: e la cosiddetta università hulboldtiana, nella quale questi miei pensieri avrebbero forse avuto un senso, oggi non esiste più. È stata demolita dappertutto, anche in Germania, ove era nata alle soglie del XIX secolo.
Il diritto romano può ancora interpretare un ruolo nella formazione degli studenti iscritti ai corsi di laurea in Giurisprudenza? A mio giudizio, l’autentico valore dello studio del diritto romano, in quanto esperienza intellettuale, dovrebbe per intero consistere nella possibilità di leggere, grazie ai Digesta di Giustiniano e alle altre compilazioni tardoantiche, i frammenti delle opere dei giuristi. Il diritto romano, proprio per il fatto che esso non si subordinò mai al paradigma della legge[3], consente a noi – uomini immersi, quasi ineluttabilmente, nel paesaggio del diritto legale – di confrontarci con un’esperienza giuridica non condizionata prioritariamente da norme poste, dall’alto, da un potere sovrano.
Nel suo impianto “classico” (tra I secolo a.C. e III secolo d.C.), esso fu un diritto di casi e di azioni (processuali) orientato dai giuristi, riposando saldamente sul riconoscimento di regole e di princìpi consolidati attraverso la scienza giuridica piuttosto che mediante il ricorso allo strumento della legge. Certamente si fece largo uso anche della legge, ma il suo ruolo, nel campo del diritto privato, fu nonostante tutto sempre marginale. Solo nell’Europa continentale degli ultimi due secoli l’equazione fra diritto privato, legge e Stato ha acquistato una forza irresistibile, fino a rappresentare, per il nostro senso comune, quasi un’evidenza naturale. Altrove, in Inghilterra o negli Stati Uniti, o, nella stessa Europa continentale, fino alla Rivoluzione Francese, non fu così: e il diritto privato venne elaborato in forza del riconoscimento di princìpi consuetudinari consolidati dalle decisioni dei giudici (come in Inghilterra) o dalla scienza del diritto.
A Roma le costruzioni concettuali dei giuristi avevano quasi sempre, come punto di partenza e d’arrivo, non una norma o un regime giuridico, ma l'individuazione della disciplina di una controversia, la soluzione di uno specifico problema. In tal modo si ricercavano assetti presentabili come direttive per stabilire il torto o la ragione partendo da un contesto dato. Un solo esempio chiarirà – lo spero – il ruolo dei giuristi nella scelta o nella costruzione ex novo degli strumenti di tutela più adeguati al caso di volta in volta preso in esame.
Servio Sulpicio Rufo, in un responso tramandatoci da Alfeno Varo, parte dall’esame di una specifica vicenda, valutandone, prima d’offrire una soluzione, tutte le possibili articolazioni, in un mirabile intreccio di sapienza analitica e di elaborazione teorica:
D. 19.2.31 (Alf. Var. 5 dig. a Paulo epit.) In navem Saufeii cum complures frumentum confuderant, Saufeius uni ex his frumentum reddiderat de communi et navis perierat: quaesitum est, an ceteri pro sua parte frumenti cum nauta agere possunt oneris aversi actione. respondit rerum locatarum duo genera esse, ut aut idem redderetur (sicuti cum vestimenta fulloni curanda locarentur) aut eiusdem generis redderetur (veluti cum argentum pusulatum fabro daretur, ut vasa fierent, aut aurum, ut anuli): ex superiore causa rem domini manere, ex posteriore in creditum iri. idem iuris esse in deposito: nam si quis pecuniam numeratam ita deposuisset, ut neque clusam neque obsignatam traderet, sed adnumeraret, nihil alius eum debere apud quem deposita esset, nisi tantundem pecuniae solveret. secundum quae videri triticum factum Saufeii et recte datum. quod si separatim tabulis aut heronibus aut in alia cupa clusum uniuscuiusque triticum fuisset, ita ut internosci posset quid cuiusque esset, non potuisse nos permutationem facere, sed tum posse eum cuius fuisset triticum quod nauta solvisset vindicare. et ideo se improbare actiones oneris aversi: quia sive eius generis essent merces, quae nautae traderentur, ut continuo eius fierent et mercator in creditum iret, non videretur onus esse aversum, quippe quod nautae fuisset: sive eadem res, quae tradita esset, reddi deberet, furti esse actionem locatori et ideo supervacuum esse iudicium oneris aversi. sed si ita datum esset, ut in simili re solvi possit, conductorem culpam dumtaxat debere (nam in re, quae utriusque causa contraheretur, culpam deberi) neque omnimodo culpam esse, quod uni reddidisset ex frumento, quoniam alicui primum reddere eum necesse fuisset, tametsi meliorem eius condicionem faceret quam ceterorum. «Più commercianti avevano caricato alla rinfusa il grano sulla nave di Saufeio. Egli aveva restituito il grano, preso dal carico, a uno dei commercianti; poi la nave era affondata. Si chiese se gli altri commercianti potessero agire contro l'armatore, per la loro parte di grano, con l'azione per la sottrazione di carico (actio oneris aversi). Servio rispose che ci sono due generi di cose date in locazione, in quanto o ci si obbliga a restituire la stessa cosa ricevuta in consegna (come quando siano locati dei vestiti a un lavandaio perché se ne prenda cura), o ci si obbliga a restituire una cosa dello stesso genere (come quando si dia dell’argento puro a un artigiano, perché ne faccia dei vasi, o dell’oro perché ne faccia degli anelli). Nella prima situazione, la cosa rimane di chi l’ha data. Nella seconda, la proprietà si trasforma in un semplice credito. Lo stesso regime giuridico vale per il deposito: infatti se si deposita denaro contante, senza consegnarlo chiuso e sigillato, ma semplicemente contandolo, a nient’altro è tenuto chi l’ha ricevuto se non alla restituzione di una somma eguale. Secondo quanto sembra, nel nostro caso il grano è passato nella proprietà di Saufeio, ed è stato validamente trasferito. Se invece il grano, essendo stato diviso in scomparti, chiuso per mezzo di tavole o in ceste o in barili in modo da poter riconoscere ogni singolo carico, fosse rimasto nella proprietà di ciascuno dei commercianti, allora non si sarebbe potuto scambiare un carico con l’altro, ma ogni commerciante, rimasto proprietario del grano restituito a uno solo dall’armatore, avrebbe potuto rivendicarlo. Perciò, secondo Servio, non è possibile ammettere l’esercizio dell’azione per la sottrazione di carico: perché o le merci consegnate all’armatore sono di tal genere che la proprietà ne venga immediatamente a lui trasferita, e al commerciante resti solo un diritto di credito, e allora non sembra esserci sottrazione di carico, essendo esso dell’armatore; oppure deve essere restituita la medesima cosa consegnata, e allora il locatore [cioè il commerciante] può esercitare l’azione per il furto, ed è quindi superflua quella per la sottrazione di carico. Ma se la consegna avvenne in modo tale che l’adempimento potesse realizzarsi mediante la restituzione di una cosa di egual genere, il conduttore [cioè l’armatore] è responsabile solo per colpa (e infatti, in un rapporto contratto bilateralmente, si ha solo responsabilità per colpa), né, nel nostro caso, vi è colpa per il fatto che il frumento sia stato restituito a uno solo, poiché era pur necessario cominciare la restituzione da qualcuno, sebbene in tal modo se ne rendesse la condizione migliore rispetto agli altri».
L’intero ragionamento si snoda attorno a un unico dettaglio[4]. Sulla nave di Saufeio più mercanti hanno caricato alla rinfusa il proprio grano senza separare, mediante scomparti, quello dell’uno da quello degli altri. Secondo Servio l’actio oneris aversi non va concessa. Anzi questo strumento di tutela, che potremmo identificare o con un’actio decretalis, da chiedere espressamente al pretore da uno dei mercanti per quello specifico caso, o con un’actio edictalis poi eliminata dalle successive redazioni dell’editto[5] forse proprio in conseguenza di questa penetrante analisi di Servio, appare, comunque, sempre superfluo. La proprietà del grano, dal momento che quest’ultimo è stato caricato sulla nave alla rinfusa, è stata trasferita a Saufeio. Sulla base di questa premessa, il giurista rielabora, dall’interno, le due nozioni di locatio-conductio e di depositum, con la suddivisione dei due generi di cose date in locazione, cui corrispondono altrettanti generi di cose date in deposito. Servio, negata la possibilità di concedere l’actio oneris aversi e contestatane l’utilità, restringe il campo all’alternativa tra actio furti e actio locati. La prima non può esperirsi perché del grano, caricato alla rinfusa sulla nave, è divenuto proprietario lo stesso Saufeio, tenuto soltanto a restituire l’equivalente dello stesso genere e della stessa qualità[6]. La seconda (l’actio locati) non condurrebbe comunque a nulla, perché, nel comportamento di Saufeio, non si ravvisa responsabilità per colpa (né, tantomeno, per dolo).
La pressione interpretativa connette il dato normativo al fatto e quest'ultimo, grazie al filtro del concetto, che lo destruttura e lo ricompone, già nasconde in sé la sua disciplina.
I responsi serviani – in grado di influenzare, direttamente o indirettamente, le scelte normative dei magistrati giusdicenti – apparivano memorabili già ai contemporanei e alla generazione immediatamente successiva, al punto tale da esser celebrati perfino negli Astronomica del poeta augusteo Marco Manilio. Dall’esame del caso alla posizione di regole vincolanti (leges): è senza dubbio questo il contesto entro il quale il giurista necessariamente opera svelando il diritto:
hic etiam legum tabulas et condita iura noverit atque notis levibus pendentia verba, et licitum sciet, et vetitum quae poena sequatur, perpetuus populi privato in limine praetor. non alio potius genitus sit Servius astro, qui leges proprias posuit, cum iura retexit. «Questi (scil. il nato nel segno della bilancia) sarà conoscitore delle tavole delle leggi, del diritto prodotto e vigente, delle parole che dipendono dai segni veloci e leggeri (le abbreviazioni); conoscerà ciò che è lecito, e le pene per ciò che è vietato; (sarà) pretore perpetuo del popolo per tutto ciò che rientra nella sfera privata. Sotto nessun'altra stella poteva essere nato Servio, che rivelando i diritti, pose vere e proprie regole vincolanti (proprias leges)»[7].
I caratteri del responso serviano contraddistinguevano, con differente intensità, il sapere di tutti i giureconsulti. Essi, procedendo dall’esame delle singole controversie, istituivano un ordine capace di dominare – come ha osservato Max Weber – multiformi realtà economiche e sociali, vale a dire l’intera gamma delle possibili relazioni tra individui e fatti:
«la sublimazione dei concetti si verificò senz’altro in relazione ai concreti schemi di azione e di contratto (…). Questo carattere astratto in parte era prefigurato nell’essenza dalle formule d’azione romane. Ciascuna di esse si riferiva a un concetto giuridico come fattispecie. Ma questi concetti erano in parte concepiti in modo tale da rendere possibile e quindi offrire il pretesto ai pratici del diritto, o tanto più ai giuristi cautelari, agli avvocati e ai consulenti, di porre sotto un concetto appropriato fatti economici straordinariamente diversi. L’adeguamento a nuove esigenze economiche si compì quindi in misura molto rilevante in maniera da interpretare razionalmente, estendere e ampliare gli antichi concetti. E in questo modo il lavoro logico-giuridico e costruttivo venne sollevato all’altezza di cui è capace sul terreno del metodo puramente analitico»[8].
Peter Handke, riconoscendo il proprio debito nei confronti della lingua e dello stile dei giuristi romani ha colto quest’aspetto molto meglio di tanti storici del diritto:
«sillabando le Pandette, frammento dopo frammento, svanivano dal mio mondo la confusione e l’oscurità ... Persino ciò che al primo sguardo sembrava una cavillosità, suddivideva poi questo mondo con maggior esattezza e acume, e al tempo stesso ampliava il grande quadro. … In quante più controversie possibili i giuristi scalcavano dalla mancanza di forma, quanto più fitte le sue maglie, più cesellate e parcellizzate le vicende messe in luce, tanto più vasto diventava per me il mondo, leggendo, tanto più chiaro e più aperto (…)»[9].
Queste parole fotografano i giuristi romani al lavoro, mentre, particolare dopo particolare, cesello dopo cesello, in maglie sempre più parcellizzate danno forma e ordine – nelle loro opere – alle realtà sociali che, nelle cause giudiziarie o nei rapporti di scambio, richiedevano una precisa disciplina.
2. Individuate le specifiche peculiarità del diritto romano nel suo ‘impianto classico tra I secolo a.C. e III secolo d.C. [arriba]
Non si studia il diritto romano per mero gusto erudito[10]. Né basta ripetere che esso, accanto alla politica greca e alla religione cristiana, costituisce uno degli elementi distintivi della cultura europea. La ragione storica per la quale il diritto romano si è radicato nelle Università di tutto il mondo risiede nel fatto che esso ha vissuto due vite: la prima nel mondo antico, la seconda in quello medievale e moderno.
I corsi universitari si occupano prevalentemente della sua vicenda nel mondo antico. Ma il diritto romano offre anche la possibilità di riflettere sull’influenza che esso esercitò sulla successiva esperienza giuridica occidentale. Se il diritto romano è ancor oggi studiato, ciò dipende esclusivamente dalla fortuna medievale e moderna della compilazione giustinianea.
A Bologna, nella seconda metà dell’XI secolo, si riscoprì la sua parte intellettualmente più viva dal punto di vista scientifico: i Digesta, un’ampia antologia, in cinquanta libri, della produzione letteraria dei giuristi romani, senza dubbio il lascito più fecondo della riflessione giuridica dell’Antichità al mondo medievale e moderno. Fu solo l’esistenza di quest’involucro a permettere la parziale sopravvivenza del pensiero giuridico romano al naufragio della letteratura del mondo antico.
Il pensiero politico d’età medievale postulava una linea ininterrotta di continuità tra Impero romano e sacrum imperium risorto in Occidente, nel giorno di Natale dell’800, con l’incoronazione di Carlomagno. È sufficiente, a tal riguardo, ricordare il VI canto del Paradiso[11].
Qui non è certamente in questione il carattere storico dell’impero romano, ma soltanto la percezione ideale che ne ebbero gli uomini del Medioevo. Bastò loro d’identificare, facendo leva sull’idea di Roma, il sacrum imperium con l’antico e d’attribuire agli imperatori della Sancta Res publica una sovranità virtualmente universale. Il diritto romano era diritto imperiale: un solo ius per tutti i popoli dell’unum imperium.
Nel mito della sovranità imperiale si colse l’elemento ideologico che consentì d’attribuire alla compilazione giustinianea una dignità equiparabile a quella goduta dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Alla luce della categoria religiosa della ‘rivelazione’, la si innalzò quasi al livello delle Sacre Scritture.
Tuttavia il recupero medievale del diritto romano non trova giustificazione soltanto in questi postulati. La sua riscoperta coincide, in effetti, con la stessa genesi dell’Università in Italia e, dunque, in Europa. La creazione, dopo l’anno Mille, di istituzioni giuridiche adeguate alla densità economica delle nuove attività cittadine, avanzò di pari passo col diffondersi della cultura. Per secoli il monopolio del sapere, riposto nelle mani dei nobili e, in particolare, dell’alto clero, aveva aperto la strada all’esercizio del potere soltanto a individui reclutati tra le fila dell’aristocrazia. Così, per la riproduzione delle élites, addette, in particolare, al governo e all’amministrazione, bastavano poche scuole palatine o ecclesiastiche. Chi non appartenesse a una famiglia dell’aristocrazia era per ciò stesso escluso dall’accesso a queste istituzioni. Si constata, dunque, l’esistenza di un ostacolo, quasi insormontabile, alla mobilità sociale. Ma in Italia, dalla seconda metà dell’XI secolo, questi presupposti, che fino ad allora avevano presieduto alla trasmissione della cultura, furono clamorosamente contestati.
È l’Italia dei comuni. Dalla nostra penisola erompono energie economiche e politiche formidabili, che la pongono al vertice dell’Europa del tempo. Ottone di Frisinga, vescovo di Colonia, e zio dell’imperatore Federico I, attorno alla metà del XII secolo, inorridito da questi mutamenti rivoluzionari che spaventavano i difensori dell’ordine tradizionale, scrisse:
in Italia «per non mancare di mezzi con cui contenere i loro vicini ammettono giovani di condizione inferiore o semplice gente dedita ai mestieri, che le altre nazioni tengono in disparte come la peste, agli studi liberali e onorevoli o, addirittura, li lasciano accedere alla carriera delle dignità espresse dal cingulum militiae» (Ut etiam ad comprimendos vicinos materia non careant, inferioris conditionis juvenes, vel quoslibet contemptibilium etiam mechanicarum artium opifices, quos caeterae gentes ab honestioribus et liberioribus studiis, tanquam pestem propellunt, ad militiae cingulum, vel dignitatum gradus assumere non dedignantur)[12].
Si stava, così, demolendo il pilastro che da secoli sorreggeva la trasmissione del potere e il suo esercizio, da riservare, secondo il vescovo, esclusivamente a quanti Dio stesso avesse destinato, con nobile nascita, a queste alte mansioni[13].
Lo strumento, per adattare i contenuti tramandati dai libri giustinianei alle nuove realtà della società basso-medievale, furono scuole autonome, sottratte al diretto controllo imperiale o ecclesiastico. Per un movimento che procede dal basso, maestri, addestrati anche allo studio della grammatica, cominciarono a impartire, a Bologna, l’insegnamento del diritto sulla base della lettura e del commento, parola per parola, dei testi giustinianei.
3. Sostiene che, per contrastarne la marginalizzazione, è inutile che i suoi cultori si travestano da civilisti o da comparatisti [arriba]
Oggi, nei corsi di laurea in Giurisprudenza, lo spazio accademico del diritto romano è stato drasticamente ridimensionato. E i giuristi, visibilmente, non sanno più che farsene.
Dall’altro versante, nel quadro delle scienze storiche del mondo antico, il suo rilievo e la sua utilità non sono mai stati, al contrario, messi in discussione. Anzi, volgendo lo sguardo verso la storia, osserviamo che l’orizzonte delle nostre ricerche si è allargato a dismisura e nuovi continenti, un tempo ignoti, sono stati scoperti. Insomma, in questo quadro (che ha le sue ombre), il diritto romano condivide lo stesso destino delle altre discipline del mondo antico.
Il vero pericolo si nasconde, perciò, in quelle regioni nelle quali corre il confine che lo separa dalle altre scienze giuridiche. In effetti, per la disciplina, il rischio più insidioso è proprio l’ansia di legittimazione di quei romanisti che si rappresentano in primo luogo come giuristi; ansia di legittimazione rivolta con tenacia esclusiva al mondo del diritto positivo e al presente a discapito della storia. Un’inquietudine che induce tanti a compiere autentiche invasioni di campo in altri settori disciplinari – dal diritto comparato al diritto civile –, ovvero a pubblicare contributi monografici nei quali, e spesso senza alcuna capacità prospettica, si dispongono in scena, quasi fossero attori d’una stessa commedia, Labeone (età augustea), Bartolo di Sassoferrato (XIV secolo) e Pothier (XVIII secolo)[14].
Alla base di questi atteggiamenti, non vi è soltanto una scarsa considerazione per la storia e per le sue regole del gioco, ma, soprattutto, un’inesatta valutazione dei veri termini della questione.
Nulla di nuovo! Recuperare al diritto romano piena cittadinanza tra le scienze giuridiche era l’obiettivo, già alla fine degli anni 30 del Novecento, di Paul Koschaker. Ma, quando guardano al presente e alle sue sfide, le idee dell’autore di L’Europa e il Diritto Romano, si concretano nel vano tentativo di ricondurre, con qualche espediente, il diritto romano al centro degli interessi dei giuristi. Si percepisce la gravità della crisi, ma si scambiano vicendevolmente, gli uni con le altre, effetti e cause:
«… l’avvenire degli studi romanistici appare avvolto nelle nebbie. Può darsi che essi sopravvivano più che altro come studi strettamente storiografici, ma soltanto perché la tempesta sradica gli alberi, e non l’erba. Le discipline giuridiche hanno proprie leggi, ed una di queste leggi è che esse sono tutte più o meno orientate verso il presente. La trattazione puramente storica del diritto romano, …, fa di questo studio una parte della scienza dell’antichità e lo pone fuori dalla cerchia delle discipline giuridiche. Ma il prezzo di questo spostamento non potrebbe non essere alla fine l’indifferenza della massa dei giuristi per il diritto romano»[15].
Paul Koschaker si muoveva, come quasi tutti gli studiosi della sua generazione, all’interno d’una visione della scienza giuridica totalmente dipendente dal positivismo (che qui intendo come quel modo di pensare, secondo il quale i giuristi devono occuparsi soltanto del diritto posto da chi è legalmente autorizzato a farlo).
Ma pochi anni dopo, al culmine del secondo conflitto mondiale, Carl Schmitt, in una conferenza intitolata La condizione della scienza giuridica europea[16], contestò tutti i luoghi comuni della coeva scienza giuridica. Unicamente in questo quadro si può valutare un’asserzione a prima vista sorprendente, anzi sconcertante:
«l’autentico erede di Savigny nel XIX secolo non è stato né Puchta né Jhering, bensì Johann Jacob Bachofen»[17].
Perché richiamarsi all’appartato autore del Mutterrecht e dichiarare, allo stesso tempo, che egli è l’unico allievo degno di collocarsi accanto al fondatore della Scuola Storica? In fondo il medesimo Bachofen racconta, nel proprio autoritratto[18], d’essersi «appassionato» al diritto romano «come a un ramo della filologia classica, e, in particolare, della filologia latina, dunque come a una parte del vasto campo che abbraccia nella sua interezza l’antichità classica». Qual è, allora, il vero fondamento di una genealogia tanto sorprendente?
Né più né meno che una sentenza di condanna definitiva del positivismo e del normativismo ottocenteschi:
«le fonti che sgorgano dalla storia del diritto romano si sono enormemente ampliate, l’orizzonte non solo si è esteriormente ampliato ma, con l’acquisizione di una nuova sensibilità per i problemi antropologici e mitologici, è stato anche enormemente approfondito (...) In verità Bachofen trascura la considerazione dell’attualità, tipica dell’epoca positivistica, per rivolgersi alla fruttuosa quiete e profondità della ricerca mitologica. Oggi non si tratta allora di compiere ripescaggi di tipo reazionario, ma di conquistare un’enorme ricchezza di nuove conoscenze che può risultare scientificamente fruttuosa per il presente e della quale dobbiamo, dandole forma, impadronirci. Guardando a tale compito dobbiamo lasciare che il morto positivismo del XIX secolo seppellisca i propri morti»[19].
In questo breve saggio Carl Schmitt, riaffermando con orgoglio[20] la sua vocazione di giurista, volle sottolineare, guardando al medesimo oggetto di Paul Koschaker, che la crisi non investiva il diritto romano in quanto tale, ma, in primo luogo, il diritto e la sua scienza.
Non è stato, a seguito della promulgazione del BGB, il definitivo venir meno della validità pratica delle Pandette a determinare la crisi del diritto romano. Ciò equivale a considerare le cose esclusivamente dal punto di vista di una scienza accademica della fine del XIX secolo. Nel 1811, dopo l’emanazione del codice generale austriaco, una crisi del genere non si manifestò, perché i miti positivistici del legislatore e della legge non avevano ancora trasformato, come rileva Carl Schmitt, «i giuristi in vermi nel legno marcio».
Insomma, per contrastare la marginalizzazione del diritto romano, è inutile travestirsi da civilisti o da comparatisti: dobbiamo, al contrario, onorare il nostro debito nei confronti della storia.
È molto difficile: lo so. Tanto più perché il diritto romano non esercita alcun fascino su giuristi incapaci d’immaginare una qualsiasi esperienza al di fuori dei limiti definiti o dal positivismo ottocentesco o dal mito non meno pernicioso del ‘mercato delle regole’[21].
Solo a quanti opereranno per l’avvento d’una scienza giuridica restituita interamente a sé stessa, il diritto romano potrà offrire l’esempio storico dell’attività d’un ceto di giuristi che, con le sue costruzioni concettuali, seppe orientare per secoli l’evoluzione dell’ordine giuridico.
Ma anche gli storici del diritto romano non possono restare inerti. Trascorsi più di quaranta anni dalla prima volta che ho varcato le soglie dell’Università, è ancora in questione la possibilità di progettare una didattica del diritto romano non fuorviata dai pregiudizi del positivismo. Ancor più di ieri, prevale oggi la mera descrizione normativa delle Istituzioni: il che, invero, per un primo orientamento, potrebbe fornire un ottimo servizio, ma, se poi non si vuol far altro, anche questo studio, come notava a suo tempo il Savigny[22], risulterebbe quasi del tutto inutile. Il parallelismo dei corsi (di diritto privato romano e di diritto privato) si è convertito, per molti, nell’errata convinzione che è precisamente in quest’analogia la ragione che giustifica la permanenza del diritto romano nei curricula degli studi giuridici. Ma così non è: al contrario, il diritto romano potrà ancora avere un senso nei corsi di laurea in Giurisprudenza, solo se il suo studio sarà in grado di mostrare ai giovani discenti che il diritto, la produzione di regole, dovrebbe essere sempre frutto d’uno sforzo intellettuale[23].
Valerio Marotta
Professore ordinario di Diritto Romano
nell’Università di Pvaia
valerio.marotta@unipv.it
[1] Valerio Marotta è Professore ordinario di Diritto romano nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, Italia. E-mail: valerio.marotta@unipv.it
[2] Una rielaborazione da Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, trad. it. a cura di Cicero, Bompiani 2009, p. 93: «l’intelligenza del mero computo dell’utile e del successo è l’intelligenza della mediocrità che resta mediocre anche quando agisce su scala politico-economica mondiale»
[3] Mantovani, «Legum multitudo»: Die Bedeutung der Gesetze im römischen Privatrecht, Duncker&Humblot 2018 [ma del medesimo a. vd. Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi, in Ferrary (a cura di), «Leges publicae». La legge nell’esperienza giuridica romana, IUSSPress 2012, pp. 708 ss.], ha inteso ridimensionare la communis opinio, secondo la quale la lex publica avrebbe interpretato un ruolo molto marginale nello sviluppo del diritto privato. A tal riguardo cfr. anche gli opportuni rilievi di Santucci, «Legum inopia» e diritto privato. Riflessioni intorno ad un recente contributo, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 80, 2014, pp. 373 ss. Dal canto suo Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi 20172, pp. 470 s. e nt. 1, ha opportunamente chiarito che il «vero problema storico non è quantitativo, ma di qualità: vale a dire dell’importanza della legislazione nel tessuto del diritto privato romano». A tal riguardo, dunque, la nota affermazione di Schulz, I principii del diritto romano, trad. it. a cura di Arangio-Ruiz, Sansoni 1946, p. 6 («il popolo del diritto non è il popolo della legge») resta sostanzialmente vera.
[4] Vd. Bretone, Storia del diritto romano, Laterza 19935, p. 204 s.; Schiavone, Ius cit., pp. 245 ss. Ulteriore lett. in Roth, «Alfeni Digesta». Eine spätrepublikanische Juristenschrift, Duncker&Humblot 1999, pp. 134 ss.; Purpura, Il χειρέμβολον e il caso di Saufeio: responsabilità e documentazione nel trasporto marittimo romano, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università degli Studi di Palermo 57, 2014, pp. 127 ss., in part. 136 ss. (ove altri riferimenti bibliografici).
[5] In entrambi i casi l’intentio della formula sarebbe stata elaborata (concepta) in factum.
[6] Ai mercanti resta solo un diritto di credito: vd. Albanese, Per la storia del creditum, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università degli Studi di Palermo 32, 1971, pp. 93 ss.
[7] Manil. Astonomica 4.209-213 Il passo di Manilio si può porre, per certi versi, a confronto con Pers. Saturae 5.88-90: Vindicta postquam a praetore recessi, / Cur mihi non liceat, iussit quodcumque voluntas, / Excepto si quid Masuri rubrica vetavit? «E chi altro è mai libero, se non chi può condurre la vita come gli pare? … Una volta lontano dal pretore e diventato me stesso con la bacchetta, perché non mi è consentita qualsiasi cosa detti la mia volontà tranne se lo vietò la rubrica di Masurio?». Persio descrive in tal modo la libertà dal punto di vista di chi è stato schiavo. Le rubricae (le titolature in rosso) di Sabino (dei suoi libri tres iuris civilis) rinviavano ai capita delle leges, ossia alle forme della scrittura dei testi legislativi: sul punto vd. Schiavone, Ius cit. p. 307.
[8] Weber, Economia e società. Diritto, a cura di Gephart e Hermes, ed. it. a cura di Palma, Donzelli 2016, pp. 228 s. Ma vd. anche la precedente traduzione italiana: Weber. Economia e società. III. Sociologia del diritto, Edizioni di Comunità 1981, pp. 122 s. «la sublimazione dei concetti avveniva in a concreti problemi di azione e di costruzione negoziale. Alla caratteristica analitica, che era sempre stata propria del diritto romano, fin dai tempi più antichi, si aggiunse un elemento ulteriore: il carattere sempre più astratto dei concetti giuridici. Questo carattere astratto era già in parte connaturato alle formule di azione romane. È vero che ognuna di esse faceva riferimento a un concetto giuridico come fattispecie. Ma questi concetti erano in parte formulati in modo da ricondurre situazioni economiche diversissime a un concetto appropriato. L’adattamento ai nuovi bisogni economici veniva così operato, in misura rilevante, interpretando razionalmente, estendendo e recando al massimo limite di espansione i vecchi concetti. Con ciò il lavoro logico e costruttivo fu elevato all’altezza cui è capace del metodo puramente analitico».
[9] Handke, Il mio anno nella baia di nessuno, trad. it Garzanti 1994, p. 104.
[10] Altrimenti non si comprenderebbero le ragioni per le quali l’insegnamento, ancor prima dello studio, di altre esperienze giuridiche del mondo antico, dai diritti cuneiformi ai diritti greci per esempio, sia, a differenza di quella romana, estremamente compresso, in specie nelle Facoltà di Giurisprudenza. Questa è una domanda senza dubbio sensata, purché non si scenda sul piano della pura provocazione così come ha fatto Monateri, Gaio Nero, in Monateri - Giaro - Somma, Le radici comuni del diritto europeo. Un cambiamento di prospettiva, Carocci 2005, pp. 19 ss. Un insegnamento di Diritti Greci è oggi impartito soltanto nei Corsi di Laurea in Giurisprudenza delle Università di Milano Bicocca, di Siena, e di Reggio Calabria ‘Mediterranea’, mentre i diritti cuneiformi, quantomeno in Italia, sono studiati esclusivamente, nelle Facoltà di Lettere, dagli assiriologi, dagli storici e dagli archeologi dell’Oriente antico, ma non sempre come oggetto prioritario delle loro ricerche: si tratta, calcolando i soli strutturati (ricercatori, associati e ordinari), di circa trenta studiosi. Ben pochi, in ogni caso, rispetto ai 229 (novembre 2019 «dati MIUR: organico-docenti]) del settore disciplinare IUS / 18 Diritto romano e diritti dell’antichità.
[11] Il solo protagonista di questo Canto è Giustiniano. Per Dante ogni imperatore non è germanico né italico, ma romano in senso spirituale, ossia universale, quale successore di Augusto e di Giustiniano. Il VI Canto coincide con un unico, lungo discorso di Giustiniano. Egli parla della propria vita e della storia del potere imperiale (simboleggiato dall’Aquila), spiegando come l’impero romano sia stato voluto da Dio per essere strumento della redenzione e deplorando l’attuale decadenza, causata dalle lotte tra Guelfi e Ghibellini. Per il poeta la provvidenzialità, la legittimità e l’insostituibilità dell’Impero non possono essere nemmeno oggetto di discussione. Il VI canto propone idee che si ritrovano in parte anche nei tre libri del De monarchia.
[12] Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I imperatoris II, 13 (a cura di Waitz - De Simson, Hahn 1884 rist. 1969, p. 116). Il cingulum militiae è la cintura militare (detto anche balteus), simbolo, fin dai tempi del tardo Impero romano, di una carica comportante l’esercizio di una potestà pubblica.
[13] Werner, Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élite politiche in Europa, trad. it. Einaudi 2000, p. 192 ss., 192 part.
[14] È un rilievo di Mantovani, Il diritto romano dopo l’Europa. La storia giuridica per la formazione del giurista e del cittadino europeo, in L. Garofalo (a cura di), Scopi e metodi della storia del diritto e formazione del giurista europeo. Incontro di studio (Padova, 25-26 novembre 2005, Jovene 2007, p. 71.
[15] Koschaker, L’Europa e il diritto romano, trad. it. a cura di A. Biscardi, Sansoni 1962, p. 601.
[16] Die Lage der europäischen Rechtswissenschaft (1943-1944), Duncker&Humblot 1958, trad. it., a cura di A. Carrino, Antonio Pellicani Editore 1996.
[17] Schmitt, La condizione della scienza giuridica europea cit. p. 73
[18] Si può leggere in traduzione italiana, sotto il titolo «Retrospettiva di una vita», nelle premesse della traduzione italiana di Das Mutterrecht: Bachofen, Il matriarcato, vol. I, Einaudi 1988, a cura di Schiavoni, pp. XLIX-LXIII.
[19] Schmitt, La condizione della scienza giuridica europea cit. pp. 73-74.
[20] Ma cfr. anche Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, trad. it., a cura di Emanuele Castrucci, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus Publicum Europaeum, Adelphi 1991, p. 13: «depongo questo libro, frutto inerme di dure esperienze, sull’altare della scienza giuridica, una scienza che ho servito per oltre quaranta anni (…)», una frase dalla quale emerge chiaramente un riferimento a D. 1.1.1.1 (Ulpiano 1 inst.) = Lenel, Palingenesia iuris Civilis, vol. II, col. 1908, e, in particolare, all’immagine dei giuristi quali sacerdotes iuris: vd. sul testo Marotta, Iustitia, vera philosophia e natura: una nota sulle Institutiones di Ulpiano, in Seminarios Complutensens de Derecho Romano 19 (2006) p. 285 ss.
[21] Al servizio, dunque, di un’astrazione che dovrebbe avere un spazio, molto limitato peraltro, nelle riflessioni della scienza economica, ma della quale ci si serve come di un’autentica mistificazione ideologica per tutelare gli interessi di ristrettissime oligarchie. Opportunamente Mattei - Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali, trad. it. Bruno Mondadori 2010, pp. 27 ss. sottolineano, per esempio, come un grande studio legale americano possa fornire alle multinazionali sue clienti proprio ciò che esse intendono con Regime di legalità: ovvero una garanzia di profitto in quelle gigantesche operazioni che trasferiscono le risorse naturali di una nazione (dal petrolio all’acqua) dalla proprietà pubblica a quella privata. Ancor più perniciosa appare la reciproca commistione fra queste due posizioni contrapposte solo in apparenza: il diritto (sarebbe più corretto scrivere: l’umanità) deve emanciparsi, allo stesso tempo, dai miti dell’assolutismo giuridico e dal mito del mercato delle regole fondato su un’eguaglianza solo formale fra le persone (fisiche e giuridiche). Sul punto osservazioni condivisibili in Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza 2011, pp. 58 ss. Su questi temi non si può prescindere dalla lettura di Grossi, Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè 1998; Id., Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè 20073.
[22] Von Savigny, La vocazione del nostro secolo per la legislazione e la giurisprudenza, trad. it. Venezia 1857, rist. an. Forni 1968, pp. 177 s.
[23] Del tutto condivisibile quel che scrive, a tal riguardo, Mantovani, Le materie storiche: il Diritto Romano, in Vesperini (a cura di), Studiare a Giurisprudenza, il Mulino 2011, p. 141.